giovedì, settembre 20, 2007

Beirut, The Flying Club Cup

Un sorriso che non si vede da ormai troppo tempo. Un sorriso che ricorda la gioia della Domenica mattina. Lo squillo del telefono che risuona nella testa giorno e notte. Camminare nella notte per sfuggire all'insonnia - le macchine che sfilano lungo la carreggiata sembrano "non esserci". Essere in un posto e non sapere dove. Essere in un posto e sentirsi Altrove. Da tutte queste sensazioni nasce The Flying Club Cup, secondo album di Zach Condon aka Beirut, seguito dell'acclamato Gulag Orkestar e, a sentire lo stesso Zach, decisamente meno balcanico del suo predecessore. Le influenze questa volta sembrano quelle di Jacques Brel e della chanson francese, gli strumenti invece corno da caccia, archi, fisarmoniche e trombe (sacrificato questa volta l'ukelele). Il risultato sembra volgere verso il barocco, l'ossessione nasce però, come per il precedente disco, da una fotografia color seppia - una delle prime a colori, precisa Zach - che ritrae un momento dei primi anni del Novecento, durante la fiera mondiale di Parigi. E la stessa voce di Condon, seppure usata con maggiore padronanza, non si discosta molto dai passati lamenti à-la Matt Elliott. Ma è soprattutto la cerchia di amici che lo circondano (Jeremy Barnes degli A Hawk And A Hacksaw, Heather Trost e Owen Pallett dei Final Fantasy) a consentirgli di ripetere, con qualche minima variazione - quell'atmosfera East Europea che lo ha reso famoso. Questo - se vogliamo - il maggior pregio ed insieme difetto (dipende dai punti di vista) dell'intero album. (7.1)

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