Un sorriso che non si vede da ormai troppo tempo. Un sorriso che ricorda la gioia della Domenica mattina. Lo squillo del telefono che risuona nella testa giorno e notte. Camminare nella notte per sfuggire all'insonnia - le macchine che sfilano lungo la carreggiata sembrano "non esserci". Essere in un posto e non sapere dove. Essere in un posto e sentirsi Altrove. Da tutte queste sensazioni nasce The Flying Club Cup, secondo album di Zach Condon aka Beirut, seguito dell'acclamato Gulag Orkestar e, a sentire lo stesso Zach, decisamente meno balcanico del suo predecessore. Le influenze questa volta sembrano quelle di Jacques Brel e della chanson francese, gli strumenti invece corno da caccia, archi, fisarmoniche e trombe (sacrificato questa volta l'ukelele). Il risultato sembra volgere verso il barocco, l'ossessione nasce però, come per il precedente disco, da una fotografia color seppia - una delle prime a colori, precisa Zach - che ritrae un momento dei primi anni del Novecento, durante la fiera mondiale di Parigi. E la stessa voce di Condon, seppure usata con maggiore padronanza, non si discosta molto dai passati lamenti à -la Matt Elliott. Ma è soprattutto la cerchia di amici che lo circondano (Jeremy Barnes degli A Hawk And A Hacksaw, Heather Trost e Owen Pallett dei Final Fantasy) a consentirgli di ripetere, con qualche minima variazione - quell'atmosfera East Europea che lo ha reso famoso. Questo - se vogliamo - il maggior pregio ed insieme difetto (dipende dai punti di vista) dell'intero album. (7.1)
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