domenica, settembre 30, 2007

Babyshambles, Shotter's Nation

"Trovati una ragazza, fatti un drink, balla e divertiti": in questo passaggio di "Delivery", primo singolo di "Shotter's Nation", è racchiuso tutto il potenziale della nuova fatica firmata Babyshambles. Non traggano in inganno le recensioni lusinghiere dei media britannici, che in alcuni casi arrivano al parossismo di 5 stelle; nè l'apporto di Albert Hammond Jr, meglio noto come chitarrista degli Strokes, il quale si limita soltanto ad infondere una certa attitudine blues ("There She Goes", il pezzo migliore dell'album). Le 12 tracce del disco sembrano infatti come spezzate in due, tra la carica rock dei Libertines e le cronache giudiziarie e sentimentali di Doherty ("French Dog Blues"); canzoni inoffensive, che non esprimono né la felicità di esserci, né la rabbia di non avere ("Deft Left Hand"); e che, in pratica, traducono in chiave artistico-musicale il disorientamento di una generazione. (4.9)

sabato, settembre 29, 2007

The Fiery Furnaces, Widow City

Immaginate un disco scritto tenendo in mano i CD di Van Morrison e con lo sguardo rivolto al poster dei Led Zeppelin; immaginate brani ispirati da vecchie riviste per zitelle e da una tavola Ouija durante una seduta spiritica; immaginate le prove di un concerto in cui i musicisti suonino/cantino ognuno un pezzo diverso; tenete presente che stiamo parlando dei Fiery Furnaces e forse potreste farvi una lontana idea di questo Widow City. Registrato nei primi mesi del 2007, nel mezzo di una tormenta di neve, il sesto album dei fratelli Friedberger non tradisce l'originalità dei precedenti lavori. La melodia vieni qui sezionata come un cadavere all'obitorio ("Pricked In The Heart"); il suono, ridotto ad un semplice impulso elettrico, sembra non trovare spazio tra le deflagrazioni noise ("Clear Signal From Cairo") e le fasi di cantato/parlato, integrate nelle 16 tracce come pezzi di un puzzle che non combaciano ("Automatic Husband"). Le sensazioni non cambiano purtroppo man mano che si procede nell'ascolto, le canzoni finendo per somigliare tutte ad uno schizofrenico monopoli musicale ("Whicker Whatnots"), in cui ciascuno strumento ed inserto elettronico cambia ad ogni giro. (5.7)

venerdì, settembre 28, 2007

Sunset Rubdown, Random Spirit Lover

Spencer Krug è uno dei più grandi artisti indie in circolazione. Se qualcuno avesse ancora dubbi in proposito, ci pensa questo "Random Spirit Lover" a dissiparli definitivamente. Non solo: il musicista canadese è anche uno dei più prolifici e poliedrici; una specie di saltimbanco medievale che presta i suoi servigi in più corti della cosiddetta scena indipendente (basti pensare ai nomi di Wolf Parade ed ai più recenti Frog Eyes. Ma torniamo all'album in questione: ennesima fatica per quei Sunset Rubdown che dovevano essere "soltanto" un side-project dei cugini Wolf. Nel disco, Krug si diverte (è proprio il caso di dirlo) a vestire i panni dell'apprendista stregone, dell'alchimista che, recitando formule arcane, prepara fuochi d'artificio ("Stallion" e "Magic vs Midas"). La ricetta è quella del classic rock Anni '70, rielaborata in chiave postmoderna ("Winged/Wicked Things"): brevi introduzioni sussurrate, chitarre lanciate verso l'iperspazio, voci-strumento che collidono con la batteria in esplosioni da supernova, danze sfrenate e scomposte come in "For The Pier (And Dead Shimmering)". Se vogliamo, il nuovo inno alla gioia - canadese. (7.5)

giovedì, settembre 27, 2007

Marlene Kuntz, Uno

I Marlene Kuntz si amano o si odiano. Difficile che la rock band italiana susciti indifferenza, dall'alto della loro - invidiabile - carriera musicale. Eccesso è quindi un termine appropriato che descrive sia Cristiano Godano e soci, sia i loro ascoltatori. Prendiamo questo "Uno": inizia con una citazione di Nabokov; prosegue accompagnato dal piano di Paolo Conte, dal contrabbasso di Greg Cohen e dai cori di Ivana Gatti, sapientemente prodotti da Gianni Maroccolo ed arrangiati da Igor Sciavolino; per non parlare del booklet, che vede alternarsi tra le pagine Enrico Brizzi, Stefano Benni, Carlo Lucarelli, eppure...eppure manca qualcosa. Forse con ancora i panni dello S-Low Tour (2006), la band si rifugia in un intimismo sussurrato quasi da spoken word ("111"), che sovrasta - il più delle volte - il pur minimo apporto di chitarre e batteria. Più in generale, ascoltando il disco si percepisce un'indecisione neanche troppo latente tra l'abbassare e l'alzare il volume ("Musa"). E' questo forse, nell'album, lo spartiacque decisivo tra chi ama i Marlene e chi invece li odia: quando aumentano il tiro, sono i rocker che buona parte d'Italia invidia ed ammira; con le polveri bagnate, piuttosto, le canzoni faticano ad uscire allo scoperto ("Negli Abissi, tra i Palpiti" e "Stato d'Animo") e l'identità del gruppo piemontese si smarrisce in un limbo, a metà tra gli ultimi Baustelle ed i Negramaro ("La Ballata dell'Ignavo"). (5.9)

mercoledì, settembre 26, 2007

My Awesome Mixtape, My Lonely and Sad Waterloo

E' proprio dell'adolescenza credere di essere onnipotenti e pronti a conquistare il mondo. E' proprio di quell'età guardare al futuro come ad un insieme infinito di possibilità. Musicalmente parlando, queste sensazioni porterebbero - idealmente - un gruppo di amici a formare una band e, muniti di una tastiera Casio + poco altro, a lanciare qualche base elettronica 8-bit e comporci sopra canzoni sugli argomenti più disparati: il caro vecchio "Amiga", la differenza tra caffè e latte e tra impermeabile e giacca a vento ("Hilarious"), ecc. E' quanto fanno i bolognesi My Awesome Mixtape con quest'album, in uscita per la My Honey. Bisogna però dire che le intenzioni (e le speranze) spesso - purtroppo - non corrispondono alla realtà e, in questo caso, si riducono a brani che peccano di coerenza ("Love On Cabin Class"), sovrapposizioni confuse di voci ("The Giant Squid") e solo qualche gemma ("My Introvert A.M.", non a caso, l'unico pezzo in cui la strumentazione tradizionale prevale su quella digitale). Peccato, perchè l'estro e la creatività - a quanto pare - non mancano. (5.5)

martedì, settembre 25, 2007

Band of Horses, Cease to Begin

Lutto, abbandono, partenza. Tre parole per descrivere in breve la storia dei Band of Horses, dagli esordi del "Tour" EP (autoprodotto, 2005) ad oggi, passando per l'ottimo "Everything All The Time" del 2006, targato Sub Pop. Abbandono - come sempre più spesso capita - di membri della band (Mat Brooke), lutti nelle famiglie degli stessi, partenze per un altroquando che non ricordi più il presente - Seattle - e dove poter cominciare a ri-costruire il futuro - South Carolina. Rimane però il country, musica ed al tempo stesso luogo ideale per ripartire. La rinascita però è sempre qualcosa di personale e qui prende la forma di una nostalgia americana, dove la musica diventa momento corale (i cori e clap-hands di "The Lamb of the Lam (In the City)"), sottofondo mai intrusivo per una rielaborazione prima personale (lo scambio chitarra-batteria di "No One's Gonna Love You" e "Marry Song") e poi collettiva ("Cigarettes, Wedding Bands"). Mount Pleasant, SC - musicalmente - non sembra poi molto distante da quell'Oklahoma City che ha dato i natali a Wayne Coyne dei Flaming Lips o alla Loisville di Jim James (My Morning Jacket). Fateci un salto: non ve ne pentirete! (7.4)

lunedì, settembre 24, 2007

Mum, Go Go Smear The Poison Ivy

Come dannati, i Mum spiano la luce dai meandri di una buia caverna, dove la speranza non trova spazio, perché tutto è già stato scritto. Non resta allora che rifugiarsi nel passato, in attesa di un evento impossibile eppure nascostamente atteso. E' quello che fa il gruppo islandese con questo nuovo album, il primo dopo l'abbandono di Kristín Valtýsdóttir (che segue quello del fratello Gyða nel 2002). Dal folto sottobosco musicale nordico, si levano allora voci di bambini defunti - ormai scomparsi, oscurati dal suono marziale delle drum machine - ricordi d'infanzia appesi al suono di campanellini, voci familiari che si sentivano alla radio da piccoli, rumori vari di piatti e stoviglie di un pranzo domenicale, ormai purtroppo solo in forma di campionamenti. Il patchwork musicale che ne deriva, in cui trovano posto elettronica e strumenti vintage, è simile ad una liturgia pagana, che cerca di nascondere dietro una voce eterea la propria pena - i riferimenti vanno qui dalla claustrofobia dei Low ("A Little Bit, Sometimes") ai "cugini" Sigur Ros ("I Was Her Horse"), ma trovano un paragone più attendibile nel recente Radical Face, "Ghost" ("Moon Pulls"). Alla fine però, come era già stato predetto, torna sempre l'inverno, che uccide i morenti fiori della speranza , raccolti nella consapevolezza dell'appassire. (6.9)

Bruce Springsteen, Magic

Sorprendente. Una parola usata non a caso per descrivere questo album (che esce per la Columbia), ma soprattutto per parlare di Bruce Springsteen. Sorprendente come il Boss abbia accompagnato con la sua musica generazioni su generazioni di americani e non. Sorprendente come sia rimasto sempre fedele a se stesso e, nonostante ciò, sia riuscito sempre, in tutti questi anni, a sorprendere (musicalmente parlando). Sorprendente, ancora, la forza della sua voce che, in questo nuovo disco (il 15mo della sua gloriosa carriera), passa agevolmente dall'adrenalina chitarra-batteria dei suoi primissimi lavori ("Radio Nowhere", "I'll Work For Your Love") alle storie di nessuno/ballate dell'impiccato che richiamano i fasti di "Nebraska" ("Magic"), fino all'armonica delle recenti "Seeger Sessions" ("Terry's Song"). L'appello ai violini "Girls In Their Summer Clothes" e "Last To Die") rappresenta l'eccezione alla regola: il Boss non è infatti un menestrello distante, ma parte delle storie - delle American (Hi)stories - che racconta. Meglio di chiunque altro, oggi più che mai, Springsteen è l'America (o - se preferite - lo spirito di almeno una parte di essa). (7.6)

domenica, settembre 23, 2007

Beirut, Pompeii [EP]

Prima che Zach Condon esorcizzasse i suoi fantasmi con le litanìe funebri di "Gulag Orkestar"; prima di scoprire che nuovi spettri (francesi) gli agitavano la mente, il ragazzo che oggi risponde al nome di Beirut provava a dar forma e suono alle sue paure, accompagnando delle semplici basi elettroniche ("Fountains & Tramways") con il suo lamento, a metà tra Matt Elliott ed Antony ("Monna Pomona"). Accanto al piano, presente in tutte e tre le tracce, fanno qui la loro comparsa i primi squilli di tromba e le prime fisarmoniche che accompagneranno l'artista del New Mexico nei suoi successivi (e fortunati) viaggi musicali. Un plauso particolare alla Ba Da Bing, che ha saputo intuirne il talento e le potenzialità creative; e che ora ci permette di ascoltarne gli esordi. (7.5)

sabato, settembre 22, 2007

Les Fauves, Nalt 1 A Fast Introduction

I Les Fauves sono "giovani, carini e disoccupati" (passatemi la citazione); hanno in media 22 anni e si sono fatti conoscere lungo lo stivale ed in Europa grazie alla loro frenetica attività live e ad un EP d'esordio dal titolo evocativo ("Our Dildo Can Change Your Life", 2006), che ha scomodato perfino quelli del NME. L'attitudine è quella da cena di classe delle superiori; l'ispirazione, è quella garage che unisce lasagne ed MTV, Pulp Fiction ed Alvaro Vitali... Con questo loro - primo - nuovo album, prodotto per la Urtovox da Giacomo Fiorenza all'Alpha Dept di Bologna, i giovani modenesi si presentano al loro - giovane - pubblico con le magliette degli ultimi Strokes piuttosto che con quelle dei Jesus & Mary Chain o degli Human Legue. Orientati il più delle volte verso lo sberleffo più puro ("Fava Go Go Dancer"), il loro classic mix di basso-chitarra-batteria, condito da tastiere sporche di Sprint al cacao (altra citazione - un po'più difficile, ma non troppo), li porta ora verso l'usato del rock'n'roll ("The Holy Church"), ora verso l'indie pop ("Atomic Winter"), senza farsi mancare qualche spigolatura di matrice elettronica ("Twister Twist" e "Tom Ponzi's Boogie"). In definitiva, il loro punto forte è la loro leggerezza; il loro punto debole è la leggerezza. Ma ai concerti ci sarà da divertirsi! (6.5)

venerdì, settembre 21, 2007

Kanye West, Graduation

Drive slow, homie. Piccoli e grandi rimpianti che si accavallano nuovamente. Drive slow, homie. La scuola, la carriera musicale, la fama ed il successo...il complesso d'inferiorità che lo abbandona nemmeno nelle copertine dei suoi dischi; nemmeno in questo terzo album, Graduation, il suo esame di maturità. Dopo essere passato da "una stanza piena di no", ad una piena di prostitute ubriache, l'artista/produttore di Atlanta Kanye West ri-compone letteralmente i pezzi della sua esaltante carriera, fatta di campionamenti, amici importanti ed un riconosciuto talento musicale, consapevole - come tutti - di non poter indugiare oltre, di aver già troppo "sbagliato". Dunque, temi già trattati in precedenza, ma mezzi espressivi che richiamano questa volta la techno europea (i Daft Punk in "Stronger"), il reggae ("Homecoming" ft. Chris Martin), senza però dimenticare il pop orchestrale del precedente album ("Champion") e concedendosi anche alcuni monologhi old-style ("Big Brother"), che richiamano gli esordi di College Dropout. Kanye però questa volta è solo - o quasi - alla guida della sua fuoriserie (pochi ospiti ed un solo MC - o quasi - Lil Wayne in "Barry Bonds"); la scaletta delle canzoni è più corta (13 invece delle 20 dei precedenti lavori) ed il risultato più "contenuto" - per quanto questa parola possa essere valida nel vocabolario di Kanye. Chi cercava un degno successore per Late Registration l'ha sicuramente trovato; chi invece ha guardato con distaccata sufficienza quel disco (mea culpa), ecco un'ottima occasione per farsi perdonare. Capolavoro sfiorato, penalizzato soltanto dalla mancanza di originalità per quanto riguarda temi e liriche. (8.0)

giovedì, settembre 20, 2007

Beirut, The Flying Club Cup

Un sorriso che non si vede da ormai troppo tempo. Un sorriso che ricorda la gioia della Domenica mattina. Lo squillo del telefono che risuona nella testa giorno e notte. Camminare nella notte per sfuggire all'insonnia - le macchine che sfilano lungo la carreggiata sembrano "non esserci". Essere in un posto e non sapere dove. Essere in un posto e sentirsi Altrove. Da tutte queste sensazioni nasce The Flying Club Cup, secondo album di Zach Condon aka Beirut, seguito dell'acclamato Gulag Orkestar e, a sentire lo stesso Zach, decisamente meno balcanico del suo predecessore. Le influenze questa volta sembrano quelle di Jacques Brel e della chanson francese, gli strumenti invece corno da caccia, archi, fisarmoniche e trombe (sacrificato questa volta l'ukelele). Il risultato sembra volgere verso il barocco, l'ossessione nasce però, come per il precedente disco, da una fotografia color seppia - una delle prime a colori, precisa Zach - che ritrae un momento dei primi anni del Novecento, durante la fiera mondiale di Parigi. E la stessa voce di Condon, seppure usata con maggiore padronanza, non si discosta molto dai passati lamenti à-la Matt Elliott. Ma è soprattutto la cerchia di amici che lo circondano (Jeremy Barnes degli A Hawk And A Hacksaw, Heather Trost e Owen Pallett dei Final Fantasy) a consentirgli di ripetere, con qualche minima variazione - quell'atmosfera East Europea che lo ha reso famoso. Questo - se vogliamo - il maggior pregio ed insieme difetto (dipende dai punti di vista) dell'intero album. (7.1)